martedì 20 marzo 2012

Miraggi libici

La rubrica delle "lettere al Corriere" di oggi (20 marzo) è l'apoteosi del pressapochismo disinformato, supponente e etnocentrico con cui tanti giornali italiani hanno fino ad oggi trattato la Libia e la sua rivoluzione.
     Scrive preoccupato un lettore che prima della primavera araba in Egitto e Libia "regnavano, se non altro, ordine, sicurezza e anche un certo progresso economico" mentre adesso "imperversano guerriglia e massacri tra bande opposte" che impediscono di pervenire "a una democrazia irraggiungibile" il che gli fa prevedere che si produrranno "dittature religiose o militari ben più spietate e feroci di quelle di Mubarak e Gheddafi". E si domanda: "valeva la pena di fare ciò che è stato fatto in Libia?"
     Presumo che il lettore non abbia messo piede in Libia (almeno negli ultimi mesi) e che quanto riferisce sia il succo delle sue letture sul quotidiano di via Solferino. Che, in effetti, soprattutto per quanto riguarda la Libia, ha fatto a gara con gli altri organi di informazione italiani per fornire un'informazione basata su stereotipi vetero-coloniali con poca attenzione ai dati reali, quasi nullo interesse per ciò che dice o pensa la popolazione e frequente ricorso a fonti occidentali di seconda o terza mano.
     E anche la risposta di Sergio Romano rimane nel solco di questa tradizione. Dopo avere ricordato i motivi per cui, a suo modo di vedere, l'Egitto avrebbe prospettive migliori, certo con tutte le cautele del caso (il "contesto politico e sociale in cui il Paese è collocato", si lascia capire, è pur sempre quello di un paese straccione in balia del fanatismo islamista), si passa alla Libia: "la Libia è pressoché totalmente (sic) priva delle virtù egiziane".
     Per riassumere, i temi sono i soliti: tribù, milizie, separatismo della Cirenaica, avidità dei proventi del petrolio. Last but not least, un richiamo ai vantaggi perduti dell'era Gheddafi: servizi gratuiti o quasi, sfruttamento degli immigrati per i lavori più sgraditi, reddito pro capite alle stelle. E l'inevitabile conclusione: "Non vorrei che qualche libico, di qui a poco, cominciasse a dire che il regime del colonnello non era poi così male".
     Per fortuna, il quadro devastante che il lettore del "Corriere" si è fatto della Libia non è che un miraggio, frutto di un'informazione a senso unico che cerca di descrivere gli eventi libici solo da un punto di vista occidentale, con una considerazione delle popolazioni indigene forse inferiore a quella dell'epoca coloniale. Di qui l'insistenza, ad esempio, sul termine "tribù", che in molti casi sarebbe più appropriato per descrivere fatti di casa nostra, ma che invece viene ossessivamente usato ogni volta che si parla di Libia, per sottolineare quanto siano selvaggi loro al confronto di noi civilizzati.
     Lo strisciante revanscismo gheddafiano che, evocato dal lettore, viene amplificato dal giornalista, non permette di cogliere il vero problema di quella dittatura. Cosa intendiamo per "ordine e sicurezza" che avrebbero regnato a quei tempi? Ai tempi di Gheddafi l' "ordine" era in realtà una spaventosa gerarchia: chi stava sopra comandava e gli altri obbedivano. E la "sicurezza" era inesistente: tutti vivevano nell'insicurezza e nella paura. Bastava una parola fuori posto e ti facevano sparire: potevi finire arrestato, torturato e ucciso senza accuse formali e senza che nessuno avesse più tue notizie. Forse qui in Europa noi percepivamo un senso di sicurezza, perché con "lui" al potere avevamo un punto di riferimento preciso e potevamo fare affari senza curarci della popolazione. Adesso ci toccherà tener conto anche dei mutevoli umori, ohibò, degli elettori...
    Quando poi si torna a parlare del reddito pro capite, non so più se ridere o piangere. Il reddito pro-capite è una media calcolata col metodo Trilussa: si prendono tutte le entrate e le si divide per il numero degli abitanti, sia quelli che hanno redditi astronomici, come Gheddafi e la sua cricca, sia quelli che hanno poco o nulla. In paesi democratici questo indicatore ha un suo senso per avere un'idea almeno approssimativa della ricchezza della popolazione. Ma in paesi dittatoriali come la Libia, in cui la ridistribuzione degli ingenti redditi petroliferi era quasi inesistente, il reddito pro-capite è una presa in giro. Se si dividessero i pochi spiccioli lasciati alla popolazione per il numero degli abitanti della Libia i risultati sarebbero molto diversi. Ho avuto modo di conoscere la Libia sotto Gheddafi e ho visto coi miei occhi la miseria di buona parte della popolazione.
     Un altro aspetto negativo del regime di Gheddafi su cui pochi si interrogano è la sua sotanziale inefficienza anche ai fini della "sicurezza". Puntando solo ed esclusivamente sulla paura, ha finito per creare non soltanto un'insofferenza generalizzata per il regime, ma anche un potenziale incalcolabile di energie al momento in cui, raggiunto il limite di saturazione, la popolazione avesse deciso che non poteva avere più paura di quella che già aveva e che a questo punto tanto valeva giocare il tutto per tutto con una sollevazione. Quello che i giornalisti italiani non hanno ancora colto di queste rivoluzioni è l'enorme sollievo che le popolazioni hanno avuto quando hanno deciso di non avere più paura: a questo punto, anche farsi ammazzare non spaventava più. E tutta la popolazione si è sollevata e ha affrontato mesi di massacri pur di farla finita.
     Quanto alla situazione attuale del paese, è vero che non è facile far emergere una classe dirigente capace ed efficiente, perché Gheddafi non si è certo curato di crearne una, ma per fortuna la situazione non è così anarchica, violenta e disperata come ce la descrivono. È in corso, sì, un vivace dibattito sul futuro assetto del paese, sulla forma di governo e sui modelli di sviluppo auspicati. Ma il senso nazionale, che Romano si ostina a negare, esiste eccome: se anche non esisteva prima, la lotta comune contro lo stesso tiranno ha rafforzato moltissimo i legami tra tutti i libici, e ogni volta che dissidi e incomprensioni emergono tra questa e quella componente del paese, vengono sempre risolti tenendo in primo piano l'unità del paese. Il termine "tribù" io non lo vedo mai evocato nelle discussioni, mentre trovo interessante la questione aperta non solo dalla Cirenaica, sulla possibile struttura federale del nuovo stato. Sostenere che "le tribù della Cirenaica chiedono un'autonomia che confina pericolosamente con l'indipendenza" ci fa sentire civili ed evoluti solo perché ci abbiamo messo la parola "tribù" e non abbiamo menzionato la parola "federalismo" che invece viene usata in questi dibattiti. Non credo che Romano consideri l'autonomia del Texas o dello stato di New York pericolosamente prossima all'indipendenza. Certo, in quel caso si parla di "Stati"e non di "tribù". La civiltà occidentale è salva.
     En passant, va anche detto che nell'esecrare il federalismo come se fosse qualcosa di "pericoloso" Romano non è solo: su questa posizione, in Libia, sono schierati... i più retrivi leader religiosi che lanciano fatwa contro il federalismo e incitano a un odio fanatico contro i federalisti.
     Se i giornali italiani, invece di spaventare i lettori con gli episodi più violenti avvenuti durante la rivoluzione, si interessassero davvero a ciò che si discute in questo momento in tutta la Libia (e non solo in Cirenaica), forse scoprirebbero che anche lì si discute di federalismo (oltre a laicismo, diritti umani, posizione della donna e altri temi politici non tribali). Ma a chi interessa  veramente la Libia?

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