lunedì 8 agosto 2011

Il punto di vista sbagliato dei media italiani

Leggendo il tono degli interventi che in Italia vengono pubblicati sulla Libia, sono colpito dal loro carattere estremamente ideologico e di conseguenza ben poco oggettivo.


Il difetto principale di quasi tutte queste analisi è il punto di vista in cui esse si pongono, che in fondo, risente ancora pesantemente dell’ottica “orientalista” tipica dell’età coloniale ma anche post-coloniale. Di fatto, tutto l’interesse è puntato sull’Occidente, si tratti di Italia, Francia o paesi NATO, e tutto viene vissuto come proiezione di posizioni più o meno critiche nei confronti di questi ultimi.
I reali protagonisti della rivolta, i Libici, il popolo libico, vengono lasciati sullo sfondo: masse anonime preda delle manipolazioni di Gheddafi o degli Stati Uniti, con la tipica noncuranza con cui si dà per scontato che i paesi colonizzatori si trovino per definizione a un livello superiore, il solo che conti in definitiva.

La linea espressa dagli interventi sul numero 3 di Limes evidenzia e cerca di approfondire in ogni modo le possibili trame che stanno dietro agli eventi di Libia. Giochi di potere e schermaglie diplomatiche, ma non una parola su ciò cha accade giorno per giorno sul terreno. Che in Italia siano arrivati o abbiano circolato messaggi faziosi e spesso senza basi nella realtà è un fatto, ma questo induce solo a giudicare della pochezza e della superficialità dei giornalisti italiani, che vivacchiano racimolando ideuzze ma si guardano bene dal darsi da fare per approfondire le cose.

In particolare, mi ha impressionato la sicumera con cui Karim Mezran, parlando della "natura della protesta contro Gheddafi" sostiene che questa, a differenza di quelle tunisina e egiziana, avrebbe "assunto immediatamente i caratteri di un'insorgenza armata e non di un movimento pacifico" . Costui o è male informato o vuole fare passare come assodata una tesi che è lungi dall'essere vera. Mezran è persona che della Libia riprende soprattutto le versioni del governo di Gheddafi, a cominciare dalle panzane sul ruolo di al-Qaida nell'insurrezione e la storiella dell'"Emirato islamico della Libia dell'Est" (intervista a "L'Occidentale 24-2-2011: http://www.loccidentale.it/node/102824)"

Avendo avuto modo di seguire "da vicino" gli eventi, da ben prima di febbraio, posso affermare con certezza che gli inizi del movimento in Libia sono stati in tutto e per tutto identici a quelli di Tunisia ed Egitto, e che solo la reazione militare di Gheddafi ha portato ad una “guerra civile”, guerra cui peraltro i libici non erano per nulla preparati, come è dimostrato dalla loro stessa incapacità a gestire un conflitto. 

È una strana guerra, che può ben definirsi “asimmetrica” per l’evidente disparità di forze in campo, ma anche per l’assoluta divergenza di mentalità e strategie.
Una parte (Gheddafi) è piena di soldi, armi e mezzi di propaganda, non ha alcuno scrupolo di umanità ed usa tutte le armi a sua disposizione, anche le più infide e sleali (razzi, bombe a grappolo, scudi umani, campi minati) non considerando nemmeno come esseri umani i suoi avversari, per denominare i quali tutti, dal dittatore all’ultimo dei suoi soldati, usano solo, ossessivamente, il termine jirdan “ratti” (qualche volta kilab “cani”, ma mai “uomini, persone”). E la sua “strategia”per la verità non è altro che terrorismo: più che in attacchi mirati a guadagnare terreno, essa consiste nel lancio indiscriminato di razzi verso le città (o i quartieri) “ribelli”, che portano ogni giorno (ripeto: ogni giorno) a un triste bilancio di distruzioni e di vittime civili, infinitamente superiore a quello, oltretutto sicuramente “gonfiato”, che sarebbe provocato dalle bombe della NATO. A Gheddafi interessa solo mantenere il potere ad ogni costo, foss’anche su porzioni ridotte del paese, e per questo è disponibile anche a dividere il paese, come mostra la sua strategia sul terreno, che è quella di contenere con ogni mezzo le avanzate avversarie (anche a costo di disseminare il paese di mine che per decenni mieteranno vittime innocenti), facendo di tutto per diffondere l’idea di uno “stallo” che porterebbe a negoziati.

Dall’altra parte sta un popolo che per oltre 40 anni ha vissuto nel terrore ed oggi, scoperta la libertà, non si accontenta di niente di meno della fine della dittatura. Un popolo formato da civili, che si sono dovuti improvvisare resistenti e soldati, ma non hanno la forma mentis del militare, e che si fanno mille scrupoli, per esempio, accertandosi, prima di attaccare  una cittadina, che i suoi abitanti siano al sicuro o acconsentano alla loro venuta (è ciò che sta accadendo in questi giorni a Tiji ai piedi del Gebel Nefusa o a Zliten ad ovest di Misurata). Nella stessa Brega, da tempo vuota di civili, molta dell’esitazione ad attaccare era dovuta alla consapevolezza che anche parecchi soldati di Gheddafi sono parenti o comunque conterranei, spesso obbligati a combattere (nei battaglioni di Gheddafi ci sono reparti col compito di sparare a chi tenta di fuggire), per cui a lungo si sono auspicate e in molti casi favorite ed ottenute, defezioni spontanee.
L’aspetto più esaltante della rivoluzione, spesso taciuto o tenuto in secondo piano nei resoconti dei media italiani, è lo spettacolo di ciò che avviene nei territori liberati. In un paese che non conosceva la libertà si vede per la prima volta fiorire una stampa libera, insieme a radio e televisioni libere. C’è fame di giornali e si pubblica di tutto. È nato perfino un quotidiano sportivo. Nel Gebel Nefusa si contano già diversi giornali in berbero, e i bambini, appena i loro villaggi sono stati sicuri, rientrano nelle scuole dove per la prima volta si vedono insegnare la loro lingua, proscritta sotto Gheddafi. Tanti libici, esuli da anni o passati nei territori “liberati” da quelli sottoposti a Gheddafi non credono ai loro occhi e si danno da fare per costruire su basi completamente nuove un nuovo paese, che mai avrebbero sperato di vedere sotto la dittatura. Noi che viviamo in paesi in cui libertà e democrazia sono considerati un dato acquisito facciamo fatica a renderci conto della rivoluzione copernicana che è avvenuta nelle menti di milioni di libici quando si sono resi conto che è possibile un mondo in cui si può parlare liberamente senza temere che il tuo vicino sia una spia e che alla minima distrazione ti possano venire a prendere e buttare in prigione. È per questo che i libici “liberati” non concepiscono nemmeno l’idea di una “trattativa” che porti a compromessi con un mondo che ormai non vogliono più vedersi tra i piedi.

La NATO e i paesi che hanno aderito alla risoluzione dell’ONU, pur rappresentando i paesi più ricchi e tecnologicamente avanzati, sono soltanto il terzo degli attori coinvolti, e si trovano in una condizione ambigua. Stanno infatti cercando di incidere sulle sorti della rivoluzione senza interventi “a terra”, che verrebbero vissuti come “ingerenza” ma solo con azioni di appoggio aereo. Un appoggio che è stato decisivo quando, alla fine di marzo, Gheddafi sembrava sul punto di schiacciare con la forza la rivolta, ma che in seguito è stato sempre più problematico. Da una parte Gheddafi non esita a trasformare scuole, ospedali e moschee in centri operativi da cui lanciare razzi e corazzati, col risultato che gli attacchi dal cielo hanno grosse difficoltà a trovare obiettivi “sicuri”. Dall’altra, le opinioni pubbliche dei diversi aesi stentano a rendersi conto di quello che avviene in Libia e tendono a giudicare le operazioni NATO alla stregua delle sciagurate operazioni di “esportazione della democrazia con le armi” di Iraq e Afghanistan. Oltretutto, la superbia di chi dispone di armi micidiali e del dominio dei cieli, fa sì che, in occidente, molti si aspettassero una “guerra lampo”, decisa dai bombardamenti e destinata a chiudersi in pochi giorni. Per questo, la lentezza dei progressi (che ci sono, ma sono percepiti molto poco, anche per carenze di informazione) viene considerata uno “stallo” militare, la cui unica alternativa sarebbe una “trattativa” per chiudere comunque alla svelta la partita. È su questo che punta gheddafi, facendo non di rado filtrare “voci” di trattative che lui segretamente auspica.
In realtà, i rivoluzionari stanno guadagnando sempre più terreno. Non solo sulle linee del “fronte” (e i combattenti del Gebel Nefusa ormai sono a poche decine di chilometri da Tripoli), ma anche nell’interno, dove manifestazioni anti-regime  e vere e proprie rivolte e “liberazioni” di città e quartieri hanno luogo in sempre più numerose località, anche considerate “feudo” di Gheddafi: Sebha, Beni Walid, Tarhuna, Msellata, per citare le principali (non parliamo poi di Tripoli, dove interi quartieri sono in rivolta costante). La sola vera arma rimasta a Gheddafi, oltre al terrore nei territori da lui controllati (arresti in massa, torture, uccisioni), è la propaganda. Le sue TV e l’ineffabile “portavoce” Ibrahim Musa Gheddafi trasmettono 24 ore su 24 comunicati che sono con ogni evidenza mendaci e privi di fondamento, che però i media occidentali spesso riprendono e considerano con serietà come se venissero da un vero e serio governo e non da un regime in agonia. C’è chi si chiede in questi giorni cosa sarebbe successo se durante la seconda guerra mondiale anche Hitler avesse messo un hotel a disposizione della stampa dei paesi nemici (a Tripoli c'è il Rixos) per diffondere comunicati rassicuranti sulla bontà del proprio regime e menzogne sull’andamento delle operazioni militari...

In conclusione, è parziale e fuorviante far passare qualunque analisi attraverso le interpretazioni delle segreterie occidentali (i paesi NATO hanno forse speso dei soldi ma hanno avuto zero vittime) ignorando tutti i segnali che vengono direttamente dai libici che con migliaia di vittime sostengono il peso di una rivoluzione e la cui prospettiva non potrà assolutamente essere ignorata in qualunque tentativo di soluzione della crisi.

2 commenti:

  1. Ostinata invio di nuovo la mia conferma. È l'articolo più aderente al vero e ben fatto.

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