domenica 6 novembre 2011

Cinque pagine esemplari

Ho impiegato un po' di giorni per confezionare questo intervento, imperniato sugli articoli che il Corriere ha dedicato alla Libia il 22 ottobre scorso, perché non sapevo da che parte cominciare. Tanti e tali sono i modi distorti di presentare la situazione che quasi ogni riga di ogni articolo meriterebbe un commento. Mi sembra comunque importante fare una breve analisi di quelle pagine perché sono in certo qual modo l'immagine concentrata del modo di trattare l'argomento Libia non solo da parte di questo, ma in generale di quasi tutti i quotidiani italiani.

Per cominciare, c'è da notare il notevole mutare dell'interesse per la Libia, con picchi di interesse alternati a fasi anche prolungate di assenza quasi totale di informazioni. Durante i lunghi mesi di battaglie in cui il popolo libico ha strappato, un po' alla volta il territorio del paese alle truppe del dittatore, vi sono stati prolungati periodi durante i quali le notizie o mancavano o erano ridotte a pochi trafiletti, che perlopiù riportavano le fantasiose dichiarazioni ufficiali dello zelante Musa Ibrahim (portavoce del governo) e/o i commenti di europei e americani, raramente le voci dei "ribelli". Questa scarsità di notizie, stagnazione dell'informazione, veniva usata per sostenere la tesi di uno "stallo" militare che avrebbe consigliato di "negoziare" con Gheddafi (la linea sostanzialmente espressa dal Corriere fino alla caduta di Tripoli). Poi all'improvviso, dopo la conquista di Tripoli, 15 pagine di trionfale assalto al carro dei vincitori.

Il 22 ottobre, dopo la morte del Rais, assistiamo a un altro risveglio di interesse per la Libia. Questa volta le pagine sono solo 5, ma con in più titoli, ampi spazi e foto in prima pagina. Gli argomenti e i modi di trattare la situazione sono diversi. Proverò a riassumerli.

Denigrazione:
Innanzitutto, la notizia del giorno, la morte avvenuta in un modo non chiaro, ma probabilmente in un contesto da linciaggio, di Gheddafi fornisce ampio spazio alle cronache. Lasciando in ombra i poco edificanti precedenti di casa nostra (Piazza Loreto dopo la guerra; per Milano anche la misera fine del ministro Prina in epoca napoleonica), i giornalisti insistono a sottolineare la "barbarie" (annunciata da un titolo in prima pagina) di questa morte. Se da una parte è vero che si è trattato di un episodio inglorioso (e come tale condannato da buona parte dei libici con cui sono in contatto, oltre che dal CNT che aveva ordinato di catturarlo vivo), è anche vero che la retorica si spreca. Parlare di "quasi totale assenza di reazioni sdegnate in Europa e in Occidente” (p. 13) proprio mentre è in corso su giornali e TV una massiccia campagna di denuncia dà l’idea del tono enfatico degli articoli.

Al di là di questi che potrebbero apparire semplici eccessi di retorica nel descrivere un fatto di sangue, si osserva anche un processo di denigrazione e delegittimazione più subdolo, tendente a "sporcare" le figure dei vincitori, facendoli passare per semplici opportunisti voltagabbana. E così, in una sorta di specchietto delle posizioni che convivono nella rivoluzione trovo accomunati sotto la comune e poco trasparente etichetta di "nazionalisti" Mustafa Abdel Jalil, presidente del CNT, e Abdessalam Jalloud, entrambi considerati "uomini del regime che hanno lasciato in tempo Gheddafi", con la piccola differenza che il primo è sostanzialmente un giudice rispettoso dei diritti umani, nominato negli ultimi anni ministro per ripulire il volto del regime ma in aperto conflitto con quest'ultimo, mentre il secondo, benché da tempo caduto in disgrazia, è stato davvero un compagno del rais dalla prima ora, e come lui ha sulla coscienza non poche violenze e violazioni dei diritti umani. Non a caso Jallud se ne sta in Italia, e mi risulta che in Libia sia lungi dal godere quella generale considerazione che invece ha Abdel Jalil. Ho l'impressione che la Farnesina miri a farne un uomo di riferimento nel nuovo regime, ed è questo il solo motivo per cui riesco a immaginare che sia stato inserito nell'articolo del Corriere come qualcuno che veramente conta.

Folklorizzazione:
Per mesi sono andati avanti a parlare di tribù. Oggi in quello specchietto che dovrebbe ritrarre "i principali gruppi che si contendono il potere" (p. 15) si vedono diverse foto di personalità dell'uno o dell'altro "schieramento", ma nella casella "berberi" c’è solo l'immagine di un individuo velato che ricorda le vecchie foto di nobili tuareg dei primi del Novecento. Nulla viene detto sulle loro idee politiche, ma solo che "vengono dalle montagne del Jebel-Nafusa" (ovviamente non il tuareg della foto) e che "sono molto forti". Nemmeno un nome di esponenti di rilievo o la citazione di una presa di posizione, una dichiarazione, un documento. Il lettore cosa può dedurne? Che si tratta di una massa indistinta, temibile per la sua forza, apparentemente selvaggia ed ignara di qualunque concetto politico moderno e civilizzato. I giornalisti del Corriere (ma, ripeto, non solo) non hanno avuto modo di conoscere nessun berbero e non hanno idea di chi siano e cosa vogliono. Per loro sono quell'entità misteriosa ma suggestiva che le agenzie di viaggi nominano per far provare ai turisti il brivido dell'incontro col selvaggio. Se si fossero informati saprebbero che sono invece una delle componenti più avanzate, consapevoli e democratiche della coalizione vittoriosa, che puntano a fare del rispetto dei diritti umani un valore centrale della nuova Libia e che, benché religiosissimi, sono ben decisi a tenere distinta la religione dallo stato. E sì che meno di un mese prima si era tenuto a Tripoli il primo congresso dei berberi di Libia, che aveva visto una partecipazione nutritissima e qualificata. Su questo evento si può leggere un eccellente articolo su Le Monde. I giornalisti del Corriere, che pure avevo informato per tempo, non avevano ritenuto necessario né seguire il congresso né, dopo il suo svolgimento, avvicinare qualcuno dei berberi attivi a Tripoli. Un inviato in Libia mandava in quei giorni via twitter appelli per qualcuno che lo aiutasse a vincere la noia ("Un mese e passa di Libia, libri finiti, panico. Ho dietro il Kindle ma vorrei leggere fiction in italiano"), e aveva l'aria seccata quando gli dicevo che Le Monde aveva pubblicato l'articolo che lui avrebbe potuto scrivere sul Corriere se solo avesse seguito il congresso...

Macroscopici errori:
Oggi c'è un surreale "Kufra al confine del Libano" (p. 15), che ridisegna gli scenari geopolitici del Mediterraneo, ma i giornali italiani sono avvezzi a fornire indicazioni geografiche a casaccio. Ricordo, ai primi di agosto, quando i combattenti del Gebel Nefusa cominciavano a calare verso la pianura tra il Gebel e il mare, delle cartine che ritraevano improbabili avanzate verso il deserto, centinaia di chilometri più a sud. Oppure un'altra immagine che per illustrare i luoghi di partenza delle carrette del mare (che erano usate come "arma" di pressione e propaganda da Gheddafi) faceva di Zanzur, sobborgo di Tripoli, una città della Cirenaica. Diciamolo: di questi paesi qui non glie ne frega niente a nessuno; scrivere i nomi esatti o fare cartine verisimili sarebbe tutta fatica sprecata.

Disinteresse totale per i libici e per la società civile:
Nella strisca di intestazione delle pagine dedicate alla Libia ("Libia ultimo atto") sono riportate in evidenza alcune frasi di commento, provenienti esclusivamente da fonti esterne alla Libia: Amr Moussa (candidato alle presidenziali in Egitto), Sergei Lavrov (ministro degli esteri russo), Franco Frattini (ministro degli esteri italiano) e Mark Toner (dipartimento di stato Usa). Accanto a questi 4 commenti esteri, ci sono due soli interventi di libici, uno da parte della vedova di Gheddafi (attualmente latitante in Algeria) e uno di un discendente del re Idris (l'unico con qualche elemento positivo). Evidentemente un parere di un libico dalla Libia è stato considerato superfluo.

Questo che potrebbe apparire un dettaglio di contorno, è in realtà indicativo del modo di considerare le vicende libiche da parte di quasti tuta la stampa italiana: tutto viene visto "di riflesso", attraverso ciò che dicono o fanno attori esterni: paesi europei, consiglieri militari, esperti veri o presunti, ma molto raramente attraverso gli occhi e le parole di coloro che ci vivono e che hanno combattuto prima, per anni, nell'isolamento e con le armi della disobbedienza civile, o poi, negli ultimi mesi, alll'aperto e con armi vere. L’interesse è di solito rivolto esclusivamente a fatti d'arme o a voci e gossip politici, con al massimo qualche articolo di colore su località legate alla storia del colonialismo italiano.

Ci sarebbe tanto da scoprire e da raccontare su come la Libia sta lentamente cercando di risollevarsi, con tanti uomini e donne che si organizzano, dibattono, creano partiti e associazioni, cercano di far ripartire su basi nuove tutti i servizi essenziali, dalla raccolta delle immondizie al sistema universitario, si sforzano di far nascere e crescere uno stato di diritto, e di intrecciare rapporti costruttivi con il mondo esterno, da cui per 42 anni il paese era stato tagliato fuori. Ma sui nostri giornali vengono descritte solo lotte di potere, fazioni, tribù bellicose e selvagge e tutto quanto il ciarpame ideologico coloniale ha inculcato nelle teste di quanti si credono "superiori" e "civili" per diritto divino.



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