Nel numero di novembre 2012 di Limes, dedicato in gran parte alla situazione del Mali e dell’Azawad, è presente, tra l’altro una mia intervista a Mossa Ag Attaher, portavoce del MNLA (Movimento Nazionale
per la Liberazione dell’Azawad). È l’unica voce diretta di un protagonista degli eventi in mezzo a tanti commenti di “esperti” esterni. L’intervista era stata realizzata in margine all’incontro-dibattito I berberi del Sahara e la questione dell'Azawad tenuto a Milano
alla Casa della Cultura il 15 giugno 2012.
Da giugno a novembre diverse cose sono cambiate nell’Azawad, ma l’intervista conserva tutto il suo interesse perché aiuta a comprendere le origini del conflitto dell’Azawad e la posizione del MNLA. Quello che viene qui riprodotto è il testo integrale dell’intervista, che nella versione pubblicata, pur mantenendo tutti i contenuti più importanti, ha subito qualche taglio per motivi redazionali data la sua notevole lunghezza.
D. E prima del 2010 non avevate avuto alcun contatto militante con le organizzazioni che già esistevano?
D. Passiamo allora a parlare dei fatti recenti, di ciò che è avvenuto a partire dall’avvio della rivolta armata per la liberazione dell’Azawad.
D. Il che non fa piacere al governo nigerino...
D. Richiesta che è stata respinta pochi giorni fa...
Da giugno a novembre diverse cose sono cambiate nell’Azawad, ma l’intervista conserva tutto il suo interesse perché aiuta a comprendere le origini del conflitto dell’Azawad e la posizione del MNLA. Quello che viene qui riprodotto è il testo integrale dell’intervista, che nella versione pubblicata, pur mantenendo tutti i contenuti più importanti, ha subito qualche taglio per motivi redazionali data la sua notevole lunghezza.
D. Chi è Mossa Ag Attaher ?
R. Io sono innanzitutto un tuareg, poi un azawadiano, e un
maliano solo a seguito della decisione che la Francia ha preso di unire il mio
popolo al Mali nel 1960. La mia famiglia appartiene agli Idenan, nel
circondario di Bourem (regione di Gao). Mio padre, Attaher Ag Infa, che da
autodidatta era giunto ad essere un funzionario di prima categoria, aveva
capito l’importanza dell’istruzione e si era dato da fare per assicurarla a
tutti i suoi dieci figli. Ma per un tuareg studiare non era e non è facile.
Dopo le elementari nel villaggio dove mio padre prestava servizio, per le medie
sono dovuto andare a Bourem, a 200 chilometri di distanza. Per il liceo ero
stato mandato a Gao, ma erano gli anni in cui le milizie operavano massacri
della popolazione tuareg, e mi è toccato trasferirmi a 1200 km da Gao, nella
regione di Sikasso. L’università l’ho fatta a Bamako, la capitale, dove mi sono
laureato in scienze socio-antropologiche. Terminati gli studi sono tornato
nella mia regione, dandomi da fare per fornire ai ragazzi tuareg meno fortunati
di me le condizioni di istruirsi senza abbandonare il loro paese. Ho così
presentato un progetto, che ha avuto il sostegno di alcune ONG francesi, per
scolarizzare i ragazzi tuareg senza obbligarli ad una separazione traumatica
dai loro genitori. Nel 2008 la nostra era considerata una scuola modello nella
regione di Bourem. Sulla sua scia ne abbiamo creato poi un’altra per i nomadi
nel Gourma (riva sinistra del Niger). In seguito ho dato vita, sempre con
partner francesi e belgi, a progetti di tipo sanitario per sopperire alla
mancanza totale di infrastrutture nella regione. Per acquisire competenze adeguate
nel settore ho preso un master in sanità pubblica all’Università Libera di
Bruxelles grazie a una borsa della Coopération Technique Belge. E al termine sono rientrato nel Mali: ho visitato
più volte l’Europa, a partire dal 2007, ma sempre per brevi periodi, per i due
anni del master, per incontri con l’ONG che finanziava i miei progetti, e per
il Salone del Turismo Solidale, un altro settore in cui ho avviato dei
progetti. Tornato in patria, ho trovato una nuova realtà: tra i tuareg si
diffondeva sempre più un’aspirazione al cambiamento, e io ho sentito il bisogno
di impegnarmi, già nel 2010, in seno a quello che non era ancora l’MNLA bensì
l’MNA, Movimento Nazionale dell’Azawad: un’organizzazione che riuniva
essenzialmente i giovani studenti tuareg, con lo scopo di costituire l’ala
politica di una rivendicazione tuareg che ci illudevamo di poter portare avanti
senza impedimenti. Purtroppo, però, le cose non sono andate così: il primo
congresso costitutivo del MNA a Timbuctù, nel novembre 2010, è stato vietato.
Ci sono stati degli arresti, ed è in seguito a questa repressione che ha preso
le mosse il MNLA...
D. E prima del 2010 non avevate avuto alcun contatto militante con le organizzazioni che già esistevano?
R. Io sono molto
giovane, ma ho vissuto in prima persona tutti gli eventi importanti degli
ultimi decenni. Nel 1990 avevo 8 anni e già capivo che stava succedendo
qualcosa di importante. E nel 1992
sono stato diretto testimone delle rappresaglie. Ho perduto dei parenti, dei
cugini fucilati dall’esercito maliano. A 7 km da Gao c’è il più grande
villaggio dei Kel Essouk, una popolazione di origine marabuttica estremamente
pacifica, ma le milizie filo-governative sono passate di lì e hanno proceduto,
indisturbati dalle autorità, al massacro di tutto il villaggio. In quel periodo
mia madre era proprio lì per far
visita ai santuari dei marabutti (i pii personaggi della tradizione). Ne uscì
viva per miracolo, insieme a pochi altri, creduti morti e gravemente feriti.
Questi avvenimenti mi hanno profondamente marcato e penso che se ho fatto tanti
sacrifici per studiare lontano dai miei è perché, in fondo, fin da piccolo
avevo capito l’importanza di ottenere una preparazione che mi permettesse di
avere un ruolo in tutto questo, ma a modo mio, visto che non sono per nulla
portato alle armi e alla violenza, il che spiega perché fino ad ora sia stato
fuori da tutti i movimenti armati. Il mio impegno è stato nella società civile,
nelle ONG e nelle associazioni, anche militanti: nel 2006 ho partecipato al
forum di Kidal che ha consentito il rientro dei tuareg dell’ADC (Alliance démocratique du 23 mai
pour le changement),
che avevano attaccato la città di Kidal, nel 2007 ho partecipato ad una
missione di deputati e notabili che ha incontrato, nelle montagne, combattenti
come Ibrahim Ag Bahanga e Hassan Ag Fagaga: anche questo incontro ha
contribuito alla mia presa di coscienza: ho scoperto uomini che, pur non avendo
nulla, vivendo in condizioni disperate, si battevano con determinazione,
animati dal desiderio di cambiare le cose. Potevano contare solo sulle loro armi,
senza alcun aiuto esterno, combattevano e morivano in una guerra di cui nessuno
fuori sentiva parlare. È stato allora che ho sentito come una missione quella
di far conoscere fuori del campo di battaglia la parola dei tuareg e dei loro
leader.
D. Passiamo allora a parlare dei fatti recenti, di ciò che è avvenuto a partire dall’avvio della rivolta armata per la liberazione dell’Azawad.
R. Per capire il
senso degli eventi bisogna prima ricordare come si è arrivato a questo. Molti
riducono il tutto a una ribellione dei tuareg partita nel gennaio 2012, con la
rapida conquista, nel giro di tre mesi, delle tre regioni del nord: tutto
facile, tutto rapido. Ma sarebbe una lettura erronea della realtà: noi siamo in
guerra col Mali dal 1960. Già due anni prima, nel 1958, avevamo espresso il
rifiuto di qualsiasi vita in comune col Mali: quell’anno tutti i nostri capi
tradizionali indirizzarono al governo francese dell’epoca una lettera in cui si
affermava che, se la Francia si apprestava a dichiarare l’indipendenza del
Mali, noi non volevamo farne parte: per noi era preferibile o creare uno stato
indipendente, o addirittura restare uniti alla Francia, che perlomeno aveva,
nei nostri confronti, un comportamento improntato al rispetto della nostra
identità, della nostra cultura, del nostro modo di vivere essenzialmente
nomade, diverso da quello dei popoli sub-sahariani. La Francia ignorò questo
appello, e il 22 settembre 1960 diede vita allo stato del Mali includendovi
anche le regioni del nord, cioè l’Azawad. Fu l’inizio di una coesistenza
difficile e dolorosa. Già nel 1963 vi fu la prima ribellione tuareg nell’Adrar
degli Ifoghas, che venne schiacciata con la forza. E già allora il Mali si
macchiò di violenze arbitrarie, con la pubblica esecuzione di uomini e ragazzi,
e con la militarizzazione dell’Azawad, in particolare di Kidal, divenuta la
regione militarizzata per eccellenza. Furono anni disperati per i Tuareg,
perché oltre alla guerra infuriava una prolungata siccità che provocò l’esodo
della gioventù tuareg verso la Libia. Nel 1990 scoppia la seconda rivolta,
condotta soprattutto da quei giovani che erano stati in Libia dove erano stati
accolti da campi di addestramento militare. Fu una ribellione più organizzata
di quella del ’63, con obiettivi più chiari e mezzi militari più adeguati, e
riuscì a cogliere diversi successi contro l’esercito maliano. Essa si concluse
con la stipula di un “Patto Nazionale” che prevedeva, tra l’altro, la
smilitarizzazione e la fine dell’isolamento delle regioni del nord, una politica
di decentralizzazione con la creazione di autorità locali elettive,
l’integrazione nell’amministrazione di diplomati tuareg, politiche sanitarie e
di istruzione che tenessero conto delle realtà della popolazione.
Questo Patto Nazionale, però, non è mai stato messo in
pratica. A parte l’integrazione di alcuni tuareg nelle forze armate, per il
resto non si è visto nulla, né per quanto riguarda l’istruzione e la lotta
contro l’analfabetismo, né per la salute, e la costruzione di ospedali e
dispensari, né per quanto riguarda la fine dell’isolamento: tra il 1960 e il
1990 non è stata costruita una sola strada: per collegare Gao con Timbuctù e
con Kidal non ci sono che piste di epoca coloniale: solo piste, nemmeno un
chilometro di asfalto. Questo mancato rispetto del Patto Nazionale da parte
dello stato maliano ha portato a un profondo scontento.
D. Ho però
l’impressione che qualcosa di positivo ci sia stato. So che c’erano deputati
tuareg al parlamento nazionale, anche se numericamente i tuareg sono minoritari
rispetto al resto della popolazione...
R. In effetti,
qualche effetto positivo è arrivato con la decentralizzazione. Tra le
rivendicazioni della rivolta del 1990 c’era la richiesta di democrazia. Nel
1990 non c’era la democrazia nel Mali : era una dittatura militare, al
potere da 23 anni, sotto il generale Moussa Traoré. Oggi pochi lo ricordano, ma
fu la rivolta tuareg l’elemento principale per l’avvento della democrazia in
tutto il Mali, non solo al Nord, con la caduta della dittatura, la
decentralizzazione e il multipartitismo. Per la prima volta vi furono delle
autorità elette localmente, dei sindaci tuareg. Ci sono anche dei deputati
tuareg, eletti dal popolo e non più, come avveniva prima, uomini scelti dal
potere per la loro accondiscendenza. Quanto alle stime sulla consistenza
numerica dei tuareg, bisogna osservare che non c'è mai stato un serio
censimento delle popolazioni nomadi. Nel 1960 la popolazione del Mali era di
circa 3 milioni di persone, di cui 500.000 tuareg. Col censimento del 2004 la
popolazione era salita a 14 milioni, ma i tuareg sarebbero sempre 500.000...
D. Preso atto di
questi antefatti, come si è arrivati alla rivolta odierna?
R. Finiamo di ricapitolare: nel 1990 c’è la rivolta, il
Patto Nazionale non rispettato, nel 1996 ci sono stati altri tentativi di
rivolta, presto sopiti. Nel 2007 ci sono stati gli accordi di Algeri, a seguito
di una nuova ribellione, ma ancora una volta i patti non sono stati rispettati,
e così nel 2010 e 2011 abbiamo tirato le somme e, fatto un bilancio di tutte
queste nostre rivendicazioni e rivolte, abbiamo preso atto della dura realtà: il Mali dal 1963 al 2010 non
ha mai voluto concedere nulla, non ha mai voluto considerare i tuareg come dei
cittadini maliani.
D. Quando dice
“abbiamo tirato le somme”, a chi si riferisce con questo “noi”?
R. Mi riferisco al MNA, un movimento essenzialmente di
giovani, che avevano però dalla loro anche tutti i deputati e i sindaci tuareg,
come potemmo constatare nel corso di diversi incontri, anche se molti, per il
loro ruolo istituzionale, non potevano permettersi di esprimere apertamente la
propria volontà di cambiare questo stato di cose. Il MNLA, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad è
sorto poi con la fusione del MNA con i preesistenti Movimenti e Fronti
Unificati dell’Azawad (MFUA), nonché con i ribelli del Movimento Tuareg Nord
Mali di Ibrahim ag-Bahanga e con i sopravvissuti della rivolta del 1963, che
sono anch’essi nel MNLA. In breve, il MNLA è davvero l’insieme delle forze vive
dell’Azawad. Si tenga presente che ad esso aderisce anche buona parte della
popolazione songhai e peul, oltre a una parte della popolazione araba. Per
venire all’oggi, la guerra non l’abbiamo voluta noi. Abbiamo fatto di tutto per
evitarla. Nel 2011 col MNA abbiamo cercato di incontrare il presidente della
repubblica Amadou Toumani Touré: per tutta risposta ci hanno arrestato. E col
rientro dei militari tuareg dalla Libia, che fa il presidente, invece di
incontrarci e discutere con loro? Raduna un gruppo di suoi amici
narcotrafficanti arabi di Timbuctù, li riempie di armi dell’esercito, organizza
milizie in piena regola, manda convogli di centinaia di veicoli a militarizzare
ancora di più Kidal, Gao e Timbuctù: una vera e propria dichiarazione di
guerra. Il nostro è stato solo un atto di autodifesa. Se fossimo rimasti inerti
avremmo perduto ogni nostra base. E così abbiamo lanciato il primo attacco, il
17 gennaio 2012, contro lo stato maliano nella cittadina di Ménaka. E in
seguito la lotta è stata breve anche grazie ai decenni di esperienza accumulata
dai nostri combattenti, in guerra dal 1963. Va anche ricordato che tutti i
tuareg integrati nell’esercito del Mali col Patto Nazionale hanno disertato e
si sono uniti al MNLA: essi conoscevano il sistema militare maliano e le sue
strategie. Decisiva per il successo è stata però la risolutezza di tutta la
popolazione dell’Azawad a combattere ad oltranza, consapevole che si trattava
di vincere o perire. Importante è
stata anche la strategia adottata dal capo di stato maggiore, Mohamed Nadjem,
un colonnello formatosi in Libia, dove era a capo della regione militare di
Oubari. Oggi è il ministro della difesa del Consiglio Transitorio dello Stato
dell’Azawad (CTEA).
D. In cosa consisteva questa strategia?
R. Una strategia che agli inizi non è stato facile fare
accettare ai combattenti, perché considerava che l’obiettivo non era solo
quello di liberare l’Azawad, ma anche di fare il minor numero di vittime, non
solo tra i civili ma anche tra i militari, anche a costo di esporsi a maggiori
rischi. La sua strategia consisteva soprattutto nel colpire a distanza, con
armamenti piuttosto sofisticati, prendendo di mira obiettivi militari in cui
non erano acquartierate truppe. Quindi non le caserme ma, per esempio,
magazzini o installazioni militari. L’importante era di far capire
all’avversario quale potenza di fuoco lo minacciava, anche da decine di
chilometri di distanza. In un primo momento i militari maliani non avevano
compreso questa strategia e cercavano di reagire: per questo all’inizio ci sono
state vittime, in particolare a Aguelhok dove i maliani hanno perso centinaia
di uomini. Poi però l’esercito del Mali ha capito ed ha preso a ritirarsi ogni
volta che sentiva di essere a tiro di una potenza di fuoco superiore. E così,
dopo i primi attacchi, ci sono stati solo prigionieri, e ben pochi morti da
parte maliana. Così si spiega la rapidità degli eventi. Inoltre, a differenza
delle rivolte precedenti, questa volta dopo avere liberato una città non ci
ritiravamo ma restavamo a presidiarla e a batterci contro i rinforzi mandati
per riprenderla. Così è stato a
Ménaka, a Tessalit, a Amachach, fino alla conquista di Kidal, Gao e
Timbuctù. Un dato importante è che da gennaio ad aprile non c’è stata nemmeno
una vittima civile tra la popolazione, anche quando abbiamo conquistato delle
città con centinaia di migliaia di abitanti come Gao : abbiamo liberato le
città senza fare morti.
D. Il 6 aprile è
stata dichiarata l’indipendenza. Qual è stato il suo ruolo in quei giorni e
come intende agire adesso?
R. Io era partito
per la Mauritania alla fine di dicembre, incaricato dal movimento di installare
a Nouakchott l’ufficio politico del MNLA, e sono arrivato a Parigi l’8 gennaio.
Sapevo che il 17 sarebbe partito l’attacco ed avevo l’incarico di portare in
Europa la voce del movimento ed il progetto politico del MNLA, farlo conoscere
agli Stati ed agli organismi internazionali. Al contrario delle precedenti
rivolte non dovevamo più combattere e morire nel silenzio internazionale, senza
che nessuno ne venisse a conoscenza.
Ho bussato a tante porte, ho gridato, ho organizzato manifestazioni a
Parigi, a Bruxelles, un po’ dovunque per attirare l’attenzione dell’opinione
pubblica, i media, le organizzazioni.
D. E quali sono
state le reazioni della comunità internazionale?
R. Il 2 aprile abbiamo proclamato unilateralmente la
fine delle operazioni militari. Tre giorni prima la Francia, gli Stati Uniti e
la CEDEAO (Comunità Economica Degli Stati dell’Africa Occidentale) avevano
rivolto un appello al Mali ed al MNLA perché accettassero un cessate il fuoco.
Noi siamo i soli ad averlo accolto e dal 2 aprile non c’è stato un solo attacco
del MNLA contro il Mali, che invece, da parte sua, non lo ha ancora accettato.
Dopodiché noi abbiamo mostrato la nostra buona volontà rispetto agli organismi
internazionali accogliendo a braccia aperte le organizzazioni umanitarie come
la Croce Rossa: abbiamo condotto il CICR nelle nostre basi per visitare ed
assistere i prigionieri, abbiamo rilasciato, anche qui in modo unilaterale,
alcuni prigionieri, affidandoli alla Croce Rossa.
Quando, il 6 aprile abbiamo proclamato l’indipendenza
dell’Azawad, sapevamo che nessuno voleva la nostra indipendenza, ne era prova
il modo in cui la Francia ci aveva consegnati al Mali come fossimo un oggetto
di cui disporre a piacimento. Non ci aspettavamo che la comunità internazionale
ci riconoscesse dall’oggi al domani, perché la nostra indipendenza rimetterebbe
in discussione tutta la retorica che circonda il mito dei sacri confini.
L’integrità territoriale è un elemento sacro per l’Occidente, pegno di fiducia
e di stabilità. Anche se il sistema ha mostrato tutte le sue magagne, si
continua a preferire ciò che è vecchio e collaudato alle incognite di un
sistema che non si conosce. A
quanto sembra, la comunità internazionale si rende conto solo adesso di queste
minacce, dimenticando le precedenti violazioni all’integrità territoriale del
Sudan (la creazione del Sud-Sudan) o dell’Etiopia (indipendenza dell’Eritrea),
per non parlare, in Europa, dell’esempio del Kosovo. Ma noi non ci arrendiamo:
molto popoli in Europa ci appoggiano, e abbiamo riconoscimenti ufficiali da
parte di molte comunità che, come noi, aspirano ad un riconoscimento, come i
Corsi e i Bretoni in Francia o i Catalani in Spagna. Non parliamo poi delle comunità
amazigh (berbere): abbiamo un sostegno straordinario da parte del popolo
cabilo, che ha fatto sfilare migliaia di persone a Tizi-Ouzou (Algeria) con la
bandiera dell’Azawad, ma anche dagli amazigh di Libia, Marocco, di ogni paese,
in particolare dai tuareg del Niger con cui viviamo in una vera e propria
simbiosi.
D. Il che non fa piacere al governo nigerino...
R. Ma è lo stato
nigerino che non fa nulla per evitare i problemi, e al contrario versa olio sul
fuoco, correndo di qua e di là per il mondo per invocare un intervento armato
contro l’Azawad. Il giorno in cui ci fosse un intervento dell’Africa
occidentale, contro l’Azawad, il Niger prenderebbe fuoco nel giro di 24 ore, e
se ciò accadesse, sarebbero guai per la stessa Francia, visto che ciò interromperebbe
il suo approvvigionamento di uranio, che si estrae nella regione tuareg del
Niger. Questo lo sa la Francia, lo sa il Niger, ma non fanno nulla per creare
le condizioni...
D. Che prospettive si aprono adesso? Ci sono tanti attori
coinvolti, sarebbe interessante sapere come la vedono i vari paesi, in
particolare la Francia e i paesi confinanti.
R. La Francia si è espressa fin da gennaio, per bocca del
suo ministro degli esteri, e per la prima volta ha parlato del problema tuareg,
per il quale ha auspicato una soluzione politica e non militare. È una svolta
rispetto alla posizione francese tradizionale, che fingeva di ignorare il
problema tuareg, perché per la prima volta la Francia si dice pronta a
ricercarne una soluzione politica. Il ministro francese si è recato più volte a
Bamako per spingere il Mali a intavolare negoziati con il MNLA, - una proposta
respinta dallo stato maliano- e in seguito si è anche attivato nei confronti
del MNLA per cercar di capire quale sia il suo progetto politico. Nel frattempo in Francia vi è stato un
cambiamento importante, alla presidenza non c’è più Sarkozy ed al suo posto vi
è ora Hollande, che ha preso in mano da poco la situazione ed ha bisogno di
tempo per deliberare una sua posizione sulla questione. Sappiamo che ha
consigliato all’emissario della CEDEAO, il presidente del Bénin Yayi Boni, di
rivolgersi al consiglio di sicurezza delle nazioni Unite, e questi ha pensato
bene di richiedere un intervento militare sostenuto dall’ONU in collaborazione
con le forze africane....
D. Richiesta che è stata respinta pochi giorni fa...
R. Sì, non è stata adottata. Comunque, contrariamente a
quanto pensano i paesi africani, il MNLA e l’Azawad non hanno nulla contro il
coinvolgimento dell’ONU, anzi noi auspichiamo che la CEDEAO e la comunità
internazionale portino davanti al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il
problema politico che ci contrappone al Mali fin dal 1960. E ben presto
contiamo di domandare alle Nazioni Unite di mettere a disposizione dell’Azawad
una commissione incaricata di seguire un referendum di autodeterminazione per
il popolo dell’Azawad. Non abbiamo cominciato da qui perché abbiamo ritenuto
importante, prima di tutto, liberare il nostro territorio e cominciare a
gestirlo noi in prima persona. Di fatto noi abbiamo già richiesto
l’autodeterminazione più di 50 anni fa, quando nel 1958 abbiamo avanzato quella
richiesta alla Francia, prima della stessa indipendenza del Mali. Tale
richiesta di indipendenza dell’Azawad era alla base anche delle rivolte del 1963
e del 1990. Non è da oggi che l’Azawad richiede l’autodeterminazione. E
contrariamente a quanto si pensa, anche noi abbiamo a cuore la pace e
auspichiamo un tavolo negoziale tra noi e il Mali, purché ci sia la volontà
reale di trovare una soluzione definitiva al problema dell’Azawad e purché il
Mali si doti rapidamente di istituzioni rappresentative democraticamente
elette. Già, perché al momento
quelli che fanno il bello e il cattivo tempo a Bamako sono un pugno di giovani
ufficiali, giunti al potere con un colpo di stato. Aggrediscono il presidente ad
interim, imprigionano i politici,
dissolvono la costituzione: è un’anarchia di stato. Noi vogliamo firmare
accordi di buon vicinato e coabitazione pacifica con il Mali, ma per farlo
occorre che vi sia instaurata un’autorità legittima riconosciuta dal popolo
maliano e dalla comunità internazionale.
D. Riguardo alla CEDEAO, ho l’impressione che al suo
interno non ci sia un’unità di intenti, e che gli stati che ne fanno parte
abbiano posizioni diverse sulla questione.
R. In effetti, la CEDEAO ha di punto in bianco cercato di
imbarcarsi in un’impresa mai tentata fino ad ora: intervenire militarmente in
un territorio che le sue forze militari non conoscono affatto e contro la
volontà di un intero popolo. Nessun paese africano vi è mai riuscito. La
Francia ha fatto qualcosa del genere in Costa d’Avorio, e in diverse zone di
conflitto, ma si tratta della Francia: ben difficilmente i paesi africani
possono pensare di riportare gli stessi successi. Inoltre, i capi di Stato dei
paesi della CEDEA non arrivano nemmeno a mettersi d’accordo sulla missione che
si dovrebbe affidare a questa forza militare. Dovrà essere una forza che si
imponga a Bamako per permettere al Mali di dotarsi di istituzioni democratiche,
cacciando la giunta militare e organizzando elezioni? Oppure una forza di
interposizione? Ma in questo caso sarebbe superflua, visto che non ci sono
combattimenti in corso, i militari maliani si sono ritirati fino a Bamako e
l’esercito del MNLA si è arrestato ai confini dell’Azawad. Se si pensa invece a
una vera e propria guerra per cacciare il MNLA dall’Azawad, ci vorranno anni di
addestramento e pratica del territorio prima che gli eserciti africani siano in
grado di farla. Se per incoscienza o irresponsabilità i capi di stato della
CEDEAO facessero scoppiare questa guerra, le conseguenze sarebbero disastrose:
un dramma umanitario perché vi sarebbero migliaia di morti tra la popolazione
civile, ma anche un dramma militare perché inviare truppe completamente inesperte
di guerra del deserto vorrebbe dire mandarle al massacro. Quanto alle vittime
civili, il nostro paese ha già un pesante bilancio che sfiora il genocidio: si
calcola che dal 1960 ad oggi siano stati almeno 110.000 i tuareg uccisi, in
combattimento o in massacri indiscriminati. 110.000!
D. Una vera guerra di sterminio. Capisco che il numero di
tuareg sia così ridotto...
R. Comunque, le cifre che vengono fatte circolare sono
fuori dalla realtà. Oggi noi siamo non meno di 4 milioni, e se ci fossero le
condizioni per consentire un rientro dignitoso a tutti i tuareg che hanno
cercato rifugio all’estero, saremmo almeno 5 milioni: c’è di che ribaltare gli
equilibri con le altre regioni del sud. È questo che il Mali non vuole, e tutto
quello che ha fatto -l’installazione di AQMI, la mancanza di sicurezza nella
regione, la militarizzazione- è stato per impedire che i tuareg facessero
ritorno a casa loro.
D. Se ho capito bene, dopo lo scoppio della guerra, nel
sud c’è stata una vera “caccia al tuareg”...
R. Proprio così. Soltanto tra gennaio e oggi ci sono stati
300.000 rifugiati, tra Mauritania, Burkina Faso, Niger e Algeria, che vanno ad
aggiungersi ad altre centinaia di migliaia profughi di precedenti guerre.
D. Per tornare alla posizione dei diversi paesi africani,
mi sembra che solo alcuni siano favorevoli ad un’opzione militare...
R. Il solo favorevole a quest’opzione è il presidente del
Benin, che ignora completamente i termini della questione: non conosce né il
Mali né l’Azawad, e non ha una vera esperienza politica: prima di diventare
presidente era un banchiere, che stava nelle grandi banche del mondo, la BAD,
(Banque Africaine de Développement), il Fondo Saudita... Adesso sta per
iniziare un secondo mandato, ma durante il primo non si è mai posto a capo di alcuna
iniziativa africana, né di tipo pacifico né bellico. Accanto a lui c’è il
presidente del Niger, che si illude di risolvere tutto inviando l’arsenale di
guerra degli Stati Uniti e della Nato per sterminare i tuareg del Mali, così
che i tuareg del Niger non possano avere chi li aiuta in caso di una
rivolta. Viceversa, il Burkina
Faso è un paese che conosce bene i tuareg -vi abitano diversi gruppi di tuareg
“neri”- e ne ha sempre accolto i profughi in occasione delle diverse
ribellioni. Il presidente Blaise Compaoré si sta impegnando seriamente in una
serie di iniziative. Una settimana fa ha accolto a Ouagadougou il MNLA per
ascoltare quello che ha da dire e prendere nota delle sue proposte. E ieri ho
saputo che ha anche invitato quelli di Ansar Dine per capire chi sono e cosa
vogliono. All’interno della CEDEAO il Burkina è in una logica di leadership
responsabile. Alcuni paesi poi sono assolutamente contrari ad un intervento
militare, come l’Algeria, la Mauritania e la Nigeria (che rappresenta la maggiore
forza militare dell’Africa Occidentale).
D. Come si spiega che l’Algeria sia così contraria ad un
intervento militare? Com’è esattamente la posizione dell’Algeria?
R. L’Algeria è contraria ad un intervento militare perché
vuole mantenere il suo ruolo di leader nella gestione della geopolitica della
subregione, in particolare per quanto riguarda i tuareg. L’Algeria subisce al
proprio interno le ripercussioni di quello che avviene nel Sahel, in
particolare nell’Azawad. E poi non va dimenticato che ha pur sempre svolto un
importante ruolo di mediatore nei diversi conflitti e non intende perderlo.
D. Ho però sentito parlare di un ruolo dell’Algeria e dei
suoi servizi segreti, nella questione di AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) e
degli islamisti...
R. Su questo non me la sento di esprimermi. Noi, in quanto
MNLA abbiamo detto, fin da gennaio, che ci aspettiamo la più stretta neutralità
dei paesi vicini, Niger, Mauritania, Algeria e Burkina Faso. Osiamo sperare che
la osservino davvero. La questione di AQMI è diversa. Sappiamo che esso non è
un movimento dell’Azawad o dei tuareg. È un movimento nato in Algeria sulla
scia del GSPC ed è composto in maggioranza di algerini. Dunque è un gruppo che
non desideriamo vedere sul nostro territorio e pensiamo che l’Algeria, con la
sua conoscenza di Aqmi e delle circostanze che hanno condotto alla sua nascita,
abbia un ruolo importante nella lotta contro questo, che è un problema sorto in
territorio algerino e poi “emigrato” nel territorio dell’Azawad. Quanto al
fatto che sarebbe stata l’Algeria a farlo nascere, si tratta di voci e non me
la sento di parlare di storie che non conosco.
D. Ad ogni modo, la questione che più preoccupa gli
europei in questo momento è proprio quella dei rapporti con l’estremismo
islamico. Nell’Azawad non c’è solo AQMI, c’è anche Ansar Dine. Cosa può dire in
proposito?
R. Bisogna tener presente che
AQMI è presente sul territorio dell’Azawad già da dieci anni, dapprima grazie
all’atteggiamento passivo del Mali, ma poi anche con la complicità dello stato
maliano, che ha intrecciato una rete di rapporti con AQMI. È soprattutto il
gruppo ristretto degli amici del presidente della repubblica testé destituito
che aveva stretti legami con esponenti della comunità araba di Timbuctù,
sostanzialmente i capi del narcotraffico. È questo intreccio tra AQMI,
narcotraffico, comunità araba e stato maliano che ha permesso il radicamento in
Mali dei gruppi terroristi. Da una scissione all’interno di AQMI è poi nato il
MUJAO, Movimento Unitaristi per il Jihad nell’Africa Occidentale, costituito
essenzialmente da boss del narcotraffico arabi di Gao e di Timbuctù. C’è poi
Ansar Dine, che non è una branca di AQMI, bensì un movimento islamista tuareg
diretto da Iyad Ag Ghali, che peraltro era stato un leader della rivolta tuareg
del 1990. Ansar Dine ha cominciato a far parlare di sé nel marzo 2012. Il suo
obiettivo era l’instaurazione della sharia,
la “legge islamica” su tutto il territorio del Mali, non solo nell’Azawad.
Questo già di per sé mostra la totale divergenza dai nostri obiettivi: noi
puntiamo a liberare il territorio e proclamare uno stato indipendente per dare
una speranza al popolo dell’Azawad. La religione non è mai stata un nostro
obiettivo. Siamo già per la maggior parte musulmani e non sentiamo il bisogno di
batterci per diventare musulmani. L’islam che noi pratichiamo ha rispetto per
le persone, i valori, la cultura, e non vogliamo unirci a gruppi che vogliono
imporre una religione con la forza e con le armi. Oggi la democrazia e la
libertà sono elementi importanti per tutti i popoli. Per questo il MNLA si
tiene alla larga da questi gruppi. Non faremo mai della sharia un principio di organizzazione politica. Il MNLA
intende rispettare le diversità etniche e religiose dell’Azawad, e se nel suo
seno ci sono persone che la pensano come gli islamisti, ci impegneremo a fare
chiarezza sul problema e a tirarne le conseguenze. [In effetti, nei
giorni successivi è stato diffuso un testo di un accordo con Ansar Dine, subito
sconfessato dalla maggioranza del MNLA, per la creazione di una “repubblica
islamica”. Un conclave del MNLA a
Ouagadougou dal 23 al 25 luglio ha affrontato esplicitamente questo problema e
ingiunto ai suoi membri compromessi con Ansar Dine di prendere definitivamente
le distanze da questa organizzazione. V.B.].
Comunque sia, ritengo che da gennaio a oggi il MNLA abbia preso le distanze in
modo abbastanza netto da questi gruppi. Combattiamo militarmente AQMI fin dal
2006, quando il numero 2 di AQMI è
morto in uno scontro con i ribelli di Ibrahim Ag Bahanga.
D. Una volta chiarita questa netta divergenza dagli
obiettivi degli islamisti, come sono adesso i rapporti di forza con loro?
R. Contrariamente a come i media dipingono qui la
situazione, noi abbiamo la supremazia sul piano militare. Gli islamisti però
prevalgono dal punto di vista finanziario, perché hanno finanziatori occulti
che portano loro milioni di dollari. Non si sa esattamente da chi provengano,
ma ci sono dei dubbi riguardo a
certi paesi... Invece il MNLA non è finanziato da nessuno. E coi soldi quelli
là possono riuscire a corrompere i giovani dell’Azawad, possono largheggiare
con sussidi umanitari per attirarsi le simpatie della popolazione: questo è un
pericolo reale. Ma dal punto di vista militare non c’è partita: noi abbiamo
oggi più di 8000 combattenti, mentre AQMI, MUJAO e tutti gli altri messi
insieme non superano i 600 combattenti.
D. Un’ultima domanda: come vede l’Azawad indipendente? Su
quali risorse potrà contare?
R. Noi avevamo già delle ricchezze, ma è lo stato del Mali
che ci ha impoveriti. Prima del suo avvento avevamo un’organizzazione politica
ed economica in cui tutti, uomini e donne, avevano di che vivere
dignitosamente. Avevamo una fiorente economia pastorale, ma anche agricola,
senza contare i commerci trans-sahariani, ma il Mali ha bloccato tutto. Da un
giorno all’altro ha dichiarato illegali le carovane trans-sahariane, e quanto
all’allevamento non ha svolto alcuna politica mirata a promuoverlo e
valorizzarlo, nonostante le immense potenzialità di questa risorsa. Abbiamo
milioni di capi di bestiame, tra cammelli, bovini, ovini e caprini, che
potrebbero apportare grande ricchezza attraverso la commercializzazione e la
valorizzazione dell’allevamento. Per dare un’idea, siamo noi che riforniamo di
carne la maggior parte del sud dell’Algeria. Da sempre colonne di camion
carichi di bestiame di ogni tipo lasciano l’Azawad dirette in Algeria. Ma come
vanno ora le cose? Senza una politica di sostegno dei prezzi, l’allevatore si
lascia sfruttare: il commerciante arabo compra le pecore al prezzo locale e poi
le rivende ad un prezzo dieci volte superiore a Tamanrasset o a Bordj Moktar o
ad Adrar. Per esempio, una pecora comprata a Gao a 35 mila franchi CFA (50
euro) viene rivenduta a 500 euro in Algeria. Ma l’allevatore, lasciato a sé
stesso, non lo sa: a lui bastano 50 euro per comprare il sacco di miglio, un
po’ di tè, dello zucchero per la sua famiglia... Quanto all’agricoltura, basti
pensare che Gao e Timbuctù sono attraversati dal fiume Niger. È una ricchezza
immensa se si valorizzasse la coltivazione del riso. Già ora, anche senza alcun
intervento da parte dello stato maliano, il riso permette l’autosufficienza
alimentare delle regioni di Gao e Timbuctù per tre mesi all’anno. Con una buona
politica agricola che permettesse, ad esempio, di dotare gli agricoltori di
pompe a motore per irrigare i campi e di mezzi moderni, si potrebbe senz’altro
passare almeno a sei mesi di autosufficienza alimentare. Per il resto
dell’economia ricordo che la direzione regionale delle dogane di Gao è una di
quelle che più contribuiscono al bilancio del ministero delle finanze per via
delle merci che vengono dal Niger, dalla Mauritania, dalla Nigeria. Ma questi
soldi vengono incamerati direttamente dal ministero e non resta nulla sul
territorio. Un’altra risorsa potenzialmente proficua è quella del turismo. È
incredibile il contributo che esso può apportare. Lo so per esperienza diretta:
il 50% del mio progetto di scolarizzazione dei bambini del Gurma si è
finanziato solo coi proventi di viaggi organizzati alla buona per amici e
conoscenti che venivano a visitare i paese. Abbiamo anche il petrolio. Prima o
poi bisognerà parlarne: i giacimenti di Taoudenni stanno per essere
classificati tra i più grandi al mondo, sia per il petrolio che per il gas. E
abbiamo dell’uranio nella regione di Kidal. Ma parlarne adesso è prematuro: prima è indispensabile
stabilizzare la regione. Sappiamo che i paesi europei sono interessati a ciò
che possono trovare da noi: petrolio, uranio, investimenti, partecipazioni in
imprese. Ma devono rendersi conto che è nel loro interesse darci una mano a
stabilizzare la regione, combattere il narcotraffico, sbarazzarci dei
terroristi. Solo allora potremo stringere accordi di partenariato che siano
rispettosi delle popolazioni locali, per non ripetere ciò che avviene ad Arlit
(nel Niger) dove il colosso Areva sta mettendo a repentaglio, indirettamente,
la vita di migliaia di tuareg, con le radiazioni che rendono impraticabili i
terreni di pascolo. Una volta in pace e indipendenti, con le nostre nuove
istituzioni e la stabilità nel paese, il governo dell’Azawad sarà pronto a
discutere con voi da pari a pari.
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