sabato 1 settembre 2012

Cosa intendiamo per "rivoluzione"?

[Lettera aperta al Corriere della Sera a seguito dell'articolo di Sergio Romano dal titolo "Le rivoluzioni arabe meglio chiamarle rivolte" (1 settembre 2012)]

Caro Romano,
Ho l'impressione che lei abbia un'idea molto particolare di cosa sia una "rivoluzione". Nel suo articolo di oggi dedicato a questo tema, vedo che addita come esempi di "rivoluzione" un putsch militare (i "giovani ufficiali" di Nasser) e due movimenti ideologici (il partito panarabista Baath e il movimento a ispirazione religiosa della Fratellanza musulmana), ma non gli eventi del 2011 in alcuni paesi del Nordafrica.

Quello che le impedisce di definirli rivoluzionari è il fatto che, secondo lei, dietro a questi eventi non vi sarebbero "idee, progetti, una nuova concezione dello Stato", ma solo un generico senso di insofferenza per governi che avevano ecceduto nell'autoritarismo.

Una rivoluzione è qualcosa che ridefinisce ab imis uno Stato e una società (e in questo senso anche un colpo di Stato militare può essere considerato tale), ma la concordia di idee e progetti non mi sembra affatto una condizione necessaria per una rivoluzione.
Prendiamo due grandi rivoluzioni del passato: la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese. Le sembra che tutti coloro che hanno fatto nascere industrie tra il Sette- e l'Ottocento avessero un progetto comune? Avevano "un programma e una leadership"? E quelli che diedero l'assalto alla Bastiglia avevano tutti in mente una particolare concezione di Stato? O si è trattato piuttosto, usando sempre le sue parole, di "un fenomeno di autocombustione sociale provocato da ragioni culturali e demografiche"? Anche nel 1789, "di fronte a questa insurrezione sociale", l’ancien régime "si è dimostrato impotente. Era troppo autoritario per captare i sentimenti della popolazione e troppo cinicamente corrotto per progettare una migliore distribuzione della ricchezza nazionale".
Si è visto poi che ben pochi degli attori della rivoluzione francese avevano un progetto comune, e quello che è seguito, dal Terrore alla nascita di un Impero, lo dimostra in modo lampante. Eppure è stata una rivoluzione. Perché? Perché da allora tutto il quadro politico e sociale dell'Europa è cambiato. Dopo di allora non è stato più possibile costringere il mondo nella vecchia divisione tra nobili e volgo-spazzatura, e anche durante la Restaurazione il germe della Rivoluzione francese ha continuato a mostrare i propri effetti, conducendo in definitiva (ma ci sono voluti secoli) alla scomparsa dell'assolutismo in tutta Europa.

Ecco perché mi sembra che negare agli eventi del 2011 il valore di una rivoluzione sia un errore. Se si rivolge oggi a un Tunisino o a un Libico o a un Egiziano la domanda del suo lettore "non si stava meglio quando si stava peggio?" la risposta non lascia dubbi: pur con tutti i loro difetti i paesi che vediamo oggi sono "altro" (e sicuramente "meglio") rispetto a quello che c'era prima. Oggi la gente non ha più il terrore delle spie del regime, parla liberamente, esprime il proprio parere, magari si arrabbia e a volte usa la violenza, ma non ha più intenzione di farsi governare da qualcuno che non si possa mettere in discussione. È cambiato radicalmente il modo di pensare il cittadino e la società. Per le giovani generazioni arabe esiste un prima e un dopo il 2011. È indiscutibile. E anche se dovessero farsi avanti forze a tendenza autoritaria, avrebbero vita dura: la consapevolezza raggiunta con la ribellione ai regimi sarà difficile da sradicare. Lei la chiami come vuole: per me, è una rivoluzione.

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