martedì 18 giugno 2013

A proposito di cittadinanza

Si fa un gran parlare, di questi tempi, delle questioni riguardanti la "cittadinanza". Oggi tutti discettano di ius soli o ius sanguinis sfoggiando una competenza da novelli giustiniani.

Tutto questo mi ha fatto tornare alla mente un breve botta e risposta che ebbi tempo fa sull'argomento con il campione del liberalismo nostrano, Piero Ostellino, e vista l'attualità del tema mi è sembrato non inutile riportarlo su questa pagina.
Inviato: giovedì 18 novembre 2010 20.52
Oggetto: Una battaglia liberale non combattuta?
Caro Ostellino,

Se capisco bene i suoi interventi sul "Corriere", lei si professa
paladino di un autentico liberalismo, che liberi gli individui contro tutti gli interessi particolari e corporativi, che invece tendono a impaniare con lacci e lacciuoli l'intraprendenza dei singoli.

Per questo, mi stupisce constatare che, nonostante la palese urgenza
della cosa, lei non abbia ancora scritto nulla (ch'io sappia) per denunciare la più odiosa delle rendite di posizione, che lo stato italiano tende a salvaguardare in tutti i modi, in particolare con legislazioni ad hoc degli ultimi tempi. Mi riferisco allo sfacciato vantaggio di cui in Italia godono anche i più inetti, pigri e a volte anche delinquenti, purché di cittadinanza italiana rispetto a chiunque altro, foss'anche un genio ricco di capacità e di iniziativa ma nato fuori dall'Italia.

Chiunque voglia fare qualcosa in Italia, se non sia un cittadino italiano, deve munirsi di permessi, attestazioni di buona condotta,certificati di ogni tipo, solo per avere il diritto a risiedere (non parliamo di lavorare) in Italia. Tutte cose di cui un Italiano non ha bisogno: se non è un delinquente conclamato, anche l'ultimo dei poltroni italiani non verrà mai costretto a defatiganti code in questura o in altri uffici per poter rimanere nella città in cui abita e lavora. Un'intollerabile rendita di posizione, che chiunque si professi "liberale" dovrebbe mirare ad abolire.

In questo senso, le proteste degli immigrati a Brescia e in via  Imbonati, che denunciano la discriminazione e le continue umiliazioni di chi ha la sola "colpa" di non essere nato in Italia, mi sembra si possano ben definire delle battaglie "liberali". Curioso che una persona come lei non dedichi ad esse neanche una riga. Cosa succede? Il "Leviatano" è meno temibile quando assume il volto rassicurante del nazionalismo xenofobo?

La ringrazio per l'attenzione e porgo cordiali saluti.

Vermondo Brugnatelli (Milano)


RISPOSTA DI P.O.
(19 novembre 2010):

Quella che lei chiama rendita di posizione si chiama cittadinanza. Dopo di che aboliamo pure molti vincoli, ma resta il fatto che il principio è praticato anche in tutti gli altri Paesi. Ostellino

REPLICA DI V.B.

Inviato: sabato 20 novembre 2010 10.38
Oggetto: Re: R: Una battaglia liberale non combattuta?
Il fatto di dare un nome alla cosa ("cittadinanza") non la rende per questo meno ingiusta.
In effetti, nel concetto di cittadinanza si mescolano, a mio avviso in modo indebito, legittimi elementi di organizzazione burocratica (un punto di riferimento amministrativo) ed arcaici elementi di appartenenza a una comunità tribale (il mito della "nazione", confusamente connessa con una consanguineità vera o fittizia di chi vi appartiene).

Sono certo che anche lei si rende conto della debolezza di una argomentazione basata sul "fanno tutti così". Un tempo in tutto il mondo si praticava la schiavitù e tutti lo trovavano "naturale". Oggi per fortuna ben pochi la pensano così. Non è detto che un domani non possa succedere lo stesso per la "cittadinanza".

Credo che ci sia da lavorare su quell' "aboliamo pure molti vincoli", in cui mi sembra di leggere una disponibilità a mettere in discussione almeno qualche aspetto della legislazione che discrimina pesantemente i "non italiani" e li rende "illegali" e passibili di espulsione, al pari dei criminali, anche se sgobbano e pagano le tasse ma non hanno i requisiti che di volta in volta il legislatore stabilisce.

Più in generale, però, mi sembra comunque che valga la pena di domandarsi che cosa impedisca l'abolizione di ogni vincolo e l'adozione del principio che chi vive e lavora in un paese vi paghi le tasse e sia sottoposto alle sue leggi indipendentemente dal luogo di nascita o di origine. È solo un'utopia?

Cordiali saluti.

Vermondo Brugnatelli


Leggendo certe enormità che si scrivono in questi giorni ho l'impressione che una mail del genere dovrei mandarla a tanti altri, a cominciare da Giovanni Sartori, che dimostra di avere ancora una visione esclusivamente "tribale" della cittadinanza...

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